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Residenza fiscale all'estero per pagare meno tasse: come NON farsi beccare

Pubblicato il 18/12/2025

L'idea inconfessabile che viene a tutti gli imprenditori almeno una volta

C’è un momento, prima o poi, in cui chiunque produca reddito in Italia si fa la stessa domanda. Non nasce da cattiveria, ma da aritmetica elementare: lavori, fatturi, incassi...e poi una parte consistente di quello che hai guadagnato sparisce in tasse. È lì che scatta il pensiero apparentemente più logico del mondo: se cambiassi Paese? Se spostassi la residenza fiscale all’estero, magari in uno Stato vicino o “fiscalmente più leggero”, non potrei pagare meno tasse in modo legale? È un’idea che circola ovunque, dai bar ai gruppi Facebook, fino ai video da trenta secondi su TikTok, ed è proprio per questo che sembra normale, quasi innocua. Il problema è che la normalità di un’idea non la rende corretta, soprattutto quando entra in collisione con il diritto tributario.

Il punto chiave, che spesso si scopre solo dopo (quando arrivano le prime lettere), è che la residenza fiscale non coincide con quella anagrafica. Non basta iscriversi all’AIRE, affittare una casa all’estero o passare formalmente più di metà anno fuori dall’Italia. La normativa italiana - a partire dal TUIR (DPR 917/1986), oggi profondamente rivista dalla riforma della fiscalità internazionale introdotta con il D.Lgs. 209/2023 - guarda a criteri molto più sostanziali: dove vivi realmente, dove lavori, dove prendi decisioni economiche, dove sono concentrati i tuoi interessi personali e patrimoniali. È qui che entra in gioco il concetto, centrale anche nel Modello OCSE, di centro degli interessi vitali, lo stesso che l’Agenzia delle Entrate e la giurisprudenza della Cassazione utilizzano per smontare le residenze “di comodo”. L’idea iniziale, quindi, non è sbagliata perché immorale, ma perchè semplifica brutalmente una materia che è tutto tranne che semplice. Ed è proprio da questa semplificazione che iniziano i guai.

Evasione, elusione, pianificazione fiscale e autoriciclaggio

A questo punto del ragionamento arriva sempre il primo grande pasticcio concettuale. Nella testa di chi si pone la domanda iniziale (me compreso, all’inizio) tutto finisce nello stesso calderone: pagare meno tasse. Peccato che per il diritto tributario italiano non sia affatto la stessa cosa. Evasione, elusione e pianificazione fiscale sono tre concetti distinti, con conseguenze completamente diverse, e confonderli è il modo più rapido per passare da un’idea ingenua a un problema serio.

L’evasione fiscale è la forma più semplice (e più pericolosa): nascondere redditi, omettere dichiarazioni, dichiarare il falso. Qui non ci sono zone grigie né giustificazioni creative: è un reato, disciplinato dal D.Lgs. 74/2000, con sanzioni amministrative pesanti e, superate certe soglie, responsabilità penale. L’elusione fiscale, oggi formalmente inquadrata come abuso del diritto, è più subdola: non si viola una norma in modo diretto, ma si costruiscono operazioni artificiose che, pur rispettando la forma della legge, hanno come unico scopo quello di ottenere un vantaggio fiscale indebito. È qui che entra in gioco l’art. 10-bis dello Statuto del Contribuente (L. 212/2000), che consente all’Amministrazione finanziaria di disconoscere i benefici fiscali e recuperare le imposte, anche senza contestare un reato.

La pianificazione fiscale lecita, invece, è tutta un’altra storia. Significa scegliere tra opzioni realmente previste dall’ordinamento, dotate di sostanza economica, con motivazioni concrete che non siano esclusivamente fiscali. È legittima, è tutelata, ed è l’unica strada percorribile senza dormire male la notte. Il problema è che, dall’esterno, elusione e pianificazione sembrano identiche, mentre dal punto di vista dell’Agenzia delle Entrate e della Cassazione la differenza è netta: se l’operazione esiste solo sulla carta, non è pianificazione. Questo chiarimento è fondamentale, perché tutto ciò che diremo nei paragrafi successivi (San Marino, Monaco, Dubai, SRL, holding, “scatole cinesi”), vive o muore su questa distinzione. E ignorarla è il primo passo per convincersi di essere furbi quando, in realtà, si sta solo accumulando rischio.

C’è poi un errore ancora più grave, che spesso viene completamente ignorato da chi gioca con strutture opache o con redditi “spostati” all’estero: l’autoriciclaggio. Quando un reddito di provenienza illecita, ad esempio frutto di evasione fiscale o di esterovestizione - viene reimpiegato, trasferito o occultato attraverso società, conti esteri o strutture artificiose, il problema non è più solo tributario. Entra in scena l’art. 648-ter.1 del Codice Penale, che punisce chi reimpiega proventi illeciti in attività economiche o finanziarie, anche se è lo stesso soggetto che ha commesso il reato presupposto. Tradotto: non basta “aver pagato poco”, conta cosa fai dopo con quei soldi. Ed è qui che molte architetture da fuffaguru trasformano un accertamento fiscale in un problema penale serio.

Condotta Riferimento normativo Cosa si rischia
Evasione fiscale D.Lgs. 74/2000 Sanzioni + penale
Elusione / abuso del diritto Art. 10-bis L. 212/2000 Recupero imposte + sanzioni
Esterovestizione Art. 73 TUIR + Cassazione Arretrati + sanzioni + penale
Autoriciclaggio Art. 648-ter.1 c.p. Reclusione + confisca
Pianificazione lecita TUIR + norme speciali Nessun rischio se reale

Quando il “furbo” incontra la Cassazione (e smette di ridere)

Qui entra in scena il momento preferito di chi si crede sveglio:

“Ok, ho spostato la residenza, ho una società estera, ho fatto tutto per bene… giusto?”

Ecco, no. La giurisprudenza italiana negli ultimi anni è diventata chirurgica e, soprattutto, impietosa verso questi ragionamenti. La Corte di Cassazione ha chiarito più volte che la residenza fiscale non coincide con un indirizzo scritto su un certificato, ma con il luogo in cui si concentra il centro degli interessi vitali, personali ed economici. In una pronuncia recente (Cass. civ., sez. V, n. 19843/2024) i giudici hanno ribadito che non conta dove dici di vivere, ma dove vivi davvero, lavori davvero, decidi davvero.

San Marino: l’idea geniale che mi è durata cinque minuti

Chi vi sta scrivendo si chiama Michelangelo e abita a poca distanza dal confine con lo Stato sovrano di San Marino (la meta ideale in cui reinsediarsi, no?) e scatta subito l’illuminazione da bar.

“Aspetta un attimo…io abito a due passi da San Marino. Stato sovrano, extra-UE, ordinato, efficiente. E se trasferissi lì la residenza fiscale eheheheh?”

Sembra quasi una furbata elegante, di quelle che racconti abbassando la voce. Peccato che il diritto tributario non funzioni come una chiacchierata tra amici. La normativa italiana è cinicamente chiara: ai sensi dell’art. 2 del TUIR (D.P.R. 917/1986) sei fiscalmente residente in Italia se, per più di 183 giorni, mantieni residenza anagrafica, domicilio o, ed è qui che la fantasia crolla, il centro degli interessi vitali.

In pieno delirio da aspirante genio fiscale arriva la paranoia vera.

“Ok, ma come fanno a beccarmi? Mi seguono? C’è un tizio con il binocolo al confine? Scatta un allarme "Michelangelo ha varcato il confine!!" ogni volta che rientro in Italia?”.

Spoiler: no. Nessuno allerta la Guardia di Finanza quando Michelangelo varca il confine. Nessun funzionario apre una mappa dicendo “Eccolo, è tornato”. Il diritto tributario non funziona così.

I controlli non sono in tempo reale, non sono cinematici, e soprattutto non sono basati sul pedinamento personale. Sono ex post, freddi, burocratici e micidiali.

La base giuridica è chiarissima: art. 2 TUIR, art. 73 TUIR per le società, articolo 53 della Costituzione italiana (capacità contributiva) e articolo 10-bis dello Statuto del Contribuente sull’abuso del diritto. Tradotto: non gliene frega niente di dove passi oggi, ma di dove vivi e lavori davvero nel tempo. E per capirlo non serve seguirmi sotto casa: bastano gli strumenti che uso io stesso ogni giorno. Telecamere ZTL, autovelox, pagamenti POS, utenze, celle telefoniche, scontrini, IP di accesso ai servizi, orari di lavoro, luogo di firma dei contratti, banche dati condivise, scambio automatico di informazioni fiscali (accordi OCSE CRS, attivi anche con San Marino). Tutto legittimo, tutto autorizzato, tutto tracciabile.

La Cassazione (sentenze n. 2869/2013, n. 19843/2024) lo dice senza poesia: la residenza fiscale si ricostruisce per presunzioni gravi, precise e concordanti. Nessuno mi spia mentre faccio la spesa, ma se gestisco l’attività dall’Italia, se prendo decisioni dall’Italia, se incasso dall’Italia e vivo di fatto in Italia: arriva l’Agenzia delle Entrate. Non suona il campanello subito. Arriva dopo, con calma, e quando arriva sono dolori veri: disconoscimento della residenza estera, tassazione integrale in Italia, anni di arretrati, sanzioni, interessi e, se le cifre crescono, profilo penale. Altro che agente segreto: è la burocrazia fiscale, lenta ma inesorabile. E a quel punto il mio monologo da furbo si spegne da solo, perché capisco che non serve scappare lontano se continuo a vivere, lavorare e decidere esattamente come prima.

Il concetto è esattamente questo e distrugge il castello: non conta dove dormi, ma dove vivi davvero. Se la famiglia resta in Italia, se il lavoro resta in Italia, se i clienti sono italiani, se le decisioni le prendi dal salotto di casa tua: allora sei fiscalmente italiano, punto!

San Marino diventa solo un indirizzo su una carta d’identità nuova di zecca. E no, non serve che qualcuno mi “stalkeri” al confine come immaginavo io: dal 2014 esistono accordi di scambio automatico di informazioni fiscali tra Italia e San Marino, allineati agli standard OCSE, che permettono di incrociare conti correnti, residenze, flussi finanziari, partecipazioni societarie e operatività reale. Se la residenza è giudicata fittizia, il risultato è sempre lo stesso: tassazione integrale in Italia, recupero retroattivo delle imposte, sanzioni pesanti e, nei casi peggiori, rilievo penale. La Cassazione lo ripete senza giri di parole: trasferirsi all’estero per pagare meno tasse è lecito solo se il trasferimento è reale, stabile e coerente; se manca la sostanza economica, l’operazione viene disconosciuta in blocco. Ed è qui che il mio monologo da furbo comincia a incrinarsi: perché non basta cambiare Stato, bisogna cambiare vita per davvero. E improvvisamente, guarda caso, l’idea sembra molto meno geniale.

Quando poi il “piano geniale” prevede una società estera, magari amministrata da un prestanome o incastrata in una struttura a scatole cinesi, la musica non cambia, anzi peggiora. La Cassazione (n. 33234/2023) ha spiegato senza giri di parole che una società è fiscalmente residente dove vengono prese le decisioni, non dove è registrata: se la strategia, il controllo e la gestione restano in Italia, l’estero è solo una scenografia.

Esiste un concetto che fa venire l’orticaria ai fuffaguru ma è amatissimo dai giudici: l’abuso del diritto. Secondo la Cassazione (n. 30051/2022), strutture formalmente corrette ma prive di reali ragioni economiche e costruite solo per risparmiare imposte sono inopponibili al Fisco. Tradotto: anche se sulla carta è tutto “legale”, non funziona. E se qualcuno pensa che il peggio sia finito qui, arriva l’ultimo gradino, quello che fa smettere di scherzare: il penale.

In una sentenza che andrebbe stampata e appesa sopra la scrivania (Cassazione Penale, Sez. II, Sentenza n. 25979/2018), la Corte ha chiarito che reimpiegare i proventi dell’evasione fiscale in attività economiche, società o investimenti può integrare il reato di autoriciclaggio, di cui abbiamo parlato poco sopra. A quel punto non si parla più di ottimizzazione fiscale o pianificazione aggressiva, ma di multe pesanti e rischio concreto di carcere. Ed è qui che il monologo del “genio delle tasse” finisce sempre allo stesso modo: non perché l’idea fosse originale, ma perché la Cassazione l’ha già vista, smontata e punita prima di te.

Fantasia del “furbo” Come funziona davvero Esito finale
“Mi seguono al confine?” Nessun allarme, nessun agente, nessun pedinamento Paranoia inutile
“Mi beccano se passo in Italia” I controlli sono ex post, basati su dati e presunzioni Illusione smontata
“Basta dormire all’estero” Conta dove vivi, lavori e prendi decisioni Residenza fittizia
“Non lascio tracce” ZTL, autovelox, POS, IP, banche dati, accordi OCSE Tracce ovunque
“Se mi scoprono subito lo so” L’Agenzia arriva anni dopo, con calma Botta retroattiva
“San Marino mi salva” Scambio automatico info + Cassazione Tasse italiane + sanzioni

Montecarlo: quando la tentazione può avere un conto salatissimo

La domanda che prima o poi arriva sempre, puntuale come l’accertamento sintetico: “E se me ne andassi a Montecarlo?”. Niente più IRPEF, niente addizionali, niente acconti, niente F24 che ti guardano storto. Il Principato di Monaco (o, impropriamente, Montecarlo), nell’immaginario collettivo, è il paradiso fiscale per antonomasia (a pari merito con Svizzera e Isole Cayman): vista mare, tasse zero e vita da film. Peccato che la realtà sia molto meno Instagram e molto più art. 2 del TUIR.

Perché la prima cosa che devo capire, e qui il discorso si fa davvero serio, è che non basta vivere bene, serve vivere davvero lì. La residenza fiscale non si compra con un mutuo e un badge del casinò. L’Italia considera fiscalmente residente chi, per la maggior parte del periodo d’imposta (183 giorni, per l'appunto), ha in Italia la residenza anagrafica, il domicilio o il centro degli interessi vitali. Ed è proprio quest’ultimo il killer silenzioso. Posso anche dormire a Montecarlo, ma se CodFis lo gestisco dall’Italia, se firmo contratti dall’Italia, se ho clienti, server, commercialista, banca operativa e decisioni strategiche qui: per il Fisco italiano io non me ne sono mai andato. La Cassazione su questo è chirurgica: conta la sostanza, non la forma. Non dove mi faccio i selfie, ma dove decido, lavoro e guadagno. E qui arriva la mazzata: Monaco collabora attivamente con l’Italia sullo scambio di informazioni fiscali, bancarie e societarie. Altro che segreto. Se risulto residente a Monaco ma continuo a produrre reddito in Italia tramite una Srl che di fatto dirigo io, scatta la contestazione di esterovestizione (art. 73 TUIR) e il castello crolla.

Risultato? Tasse recuperate retroattivamente, sanzioni, interessi e, nei casi peggiori, anche profili penali se l’imposta evasa supera le soglie del D.Lgs. 74/2000. E la parte tragicomica è che Monaco, a differenza dei miti da fuffa, non ti protegge se stai facendo il furbo: ti chiede residenza reale, presenza stabile, spese minime elevate, affitti o immobili che fanno girare la testa, e soprattutto redditi coerenti. In altre parole: Montecarlo funziona solo se sei davvero ricco prima, non se stai cercando di diventarlo scappando. Morale del monologo? Monaco non è un trucco fiscale, è una scelta di vita radicale, costosa e controllata. Se provo a usarla come scorciatoia, non sto giocando a scacchi col Fisco: sto giocando a dama, e perdo pure.

"Va bene, allora creo una Srl all’estero e frego tutti"

Con spirito di sfida verso il "sistema", nella mia testa la soluzione diventa qualcosa tipo:

“Ok, ho capito: spostare me è complicato. Ma se invece sposto la società?”

Ed ecco che nasce l’idea della Srl estera, magari con una holding sopra, due scatole ben impilate, una in più giurisdizioni e la sensazione rassicurante di aver fatto qualcosa di "strutturato".

Peccato che il diritto tributario abbia già previsto anche questa genialata. Qui rientra in scena l’esterovestizione, che stabilisce un principio brutale nella sua semplicità: una società è fiscalmente residente in Italia se la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale dell’attività sono di fatto in Italia. Non conta dove è registrata la Srl, conta dove si decide. E se le decisioni strategiche le prendo io, dal mio computer, seduto sul divano italiano, la società è italiana. Fine della favola.

La Cassazione (sentenza n. 33234/2018) lo ribadisce come un mantra: l’esterovestizione si configura quando la struttura estera è meramente formale, priva di autonomia decisionale e di sostanza economica. Tradotto dal legalese: se la società estera serve solo a pagare meno tasse, non serve a niente. Anzi, serve a peggiorare le cose. Perchè quando l’Agenzia delle Entrate disconosce la residenza estera, non solo recupera IRES, IRAP e IVA, ma può aprire anche il capitolo penale: dichiarazione fraudolenta (D.Lgs. 74/2000) e, nei casi più gravi, perfino autoriciclaggio (art. 648-ter.1 c.p.) se i proventi “risparmiati” vengono reinvestiti. Ed è qui che il mio entusiasmo per le scatole cinesi inizia a raffreddarsi: perché più scatole aggiungo, più devo dimostrare che ognuna ha uffici, persone, decisioni reali, conti, rischi e funzioni autonome. Non è pianificazione fiscale, è ingegneria aziendale vera, costosa e fragile.

E capisco finalmente il punto: la Srl non è una bacchetta magica per pagare meno tasse, è uno strumento. Se la uso per organizzare meglio un business reale, funziona. Se la uso per fare il furbo, mi torna addosso con gli interessi.

La "holding" nasconde una grande insidia che nessuno cita apertamente

Ora che mi sento quasi maturo e disilluso, da vero "escapologo incallito del fisco italiano" (ahah) propongo a me stesso:

Va bene, niente trucchi, niente magie, niente inganni, però almeno una "holding" la posso fare”.

E in effetti sì: la holding è legale, è usata ovunque, dalle PMI serie ai grandi gruppi. Ma qui arriva la verità scomoda che nessun fuffaguru mette nella slide: la holding non serve a pagare meno tasse in senso assoluto, serve a pagare le tasse in momenti diversi. E questa differenza è enorme, ma va capita bene. La struttura tipica è semplice: io ho una Srl operativa, sopra metto una Srl holding che detiene le quote. L’operativa genera utili e paga IRES al 24% (più IRAP, quando applicabile). Fin qui nulla di rivoluzionario. Il punto interessante arriva dopo: se l’utile non lo porto subito a casa mia come persona fisica, ma lo distribuisco alla holding, entra in gioco il regime della Participation Exemption (PEX) previsto dagli artt. 87 e 89 TUIR.

Risultato: il 95% dei dividendi è esente, solo il 5% viene tassato in capo alla holding. Non è evasione, non è elusione, è legge pura. Ma attenzione: i soldi non sono miei, sono della holding. Posso usarli per investire, comprare asset, finanziare altre società, creare nuove attività. La pressione fiscale finale non è sparita, è congelata. Il problema nasce quando mi dico:

“Vabbè, prima o poi li tiro fuori”.

Quando io, persona fisica, prelevo utili dalla holding, pago l’imposta sui dividendi al 26%.

Colpo di scena: se faccio i conti fino in fondo, la percentuale totale di tasse pagate si avvicina molto a quella che avrei pagato senza holding. Cambia però una cosa fondamentale: il timing. Con la holding io posso accumulare capitale lordo, investirlo, farlo crescere e decidere quando e quanto tassarmi. È qui che la struttura diventa potente, non perché “frega il fisco”, ma perché gestisce la liquidità. Ed è anche qui che molti sbagliano e finiscono nei guai: se uso la holding come un bancomat personale mascherato, l’Agenzia delle Entrate parla di abuso del diritto (art. 10-bis L. 212/2000) e mi raddrizza la situazione a colpi di accertamenti. Quindi il punto, che mi fa scendere definitivamente dal piedistallo del “furbo”, è questo: la holding funziona solo se accetto che i soldi non siano miei finchè non li tassano. Se invece voglio spendere come se lo fossero già...allora sì, mi beccano. L'Agenzia mi smonta subito, e pure facilmente.

"Azienda in Italia, imposte in Italia" ok ma c'è un vantaggio ENORME (borderline)

Questa è la parte dove molti iniziano a sorridere, qualcuno prende appunti, e parecchi finiscono nei guai.

Perché lo schema “vivo a Monaco, pago meno tasse” può funzionare davvero, ma solo se rispetta tre condizioni precise, rigide e documentabili. Se ne salti anche una sola, non è più pianificazione fiscale: diventa accertamento, recupero integrale e interessi inclusi. Andiamo con ordine, senza slogan e senza favole.

Lo scenario che regge, in linea di principio, è questo: vivi fisicamente a Monaco, hai una residenza reale (casa, mutuo o affitto, utenze, banca), lavori da lì e gestisci la tua attività (digitale e non) da remoto. Tutto vero, tutto coerente, tutto difendibile.

Ma attenzione:

il punto delicato non sei tu, è la SRL italiana. L’Agenzia delle Entrate non ti chiederà “Dove vivi?”, ma una cosa molto più scomoda:

"Dove viene gestita davvero la società?"

Se sei amministratore unico, decidi tu, firmi tu, operi tu ecc. va benissimo. Anche se lo fai da Monaco.

Ma solo a una condizione chiave: la direzione effettiva deve essere fuori dall’Italia. Non sulla carta, nei fatti.

Deve risultare che lavori da Monaco, prendi decisioni da Monaco, firmi da Monaco, vivi da Monaco. E questo non si racconta: si dimostra. IP esteri, firme digitali, email, agenda, voli, banca, vita quotidiana. Tutto concorre a dire una cosa sola: non stai recitando.

Seconda condizione, spesso sottovalutata: il luogo di produzione del reddito. Un progetto digitale (sito web, servizi online, zero necessità di presenza fisica in Italia) è perfetto per questo schema. Ma se inizi a sviluppare stabilmente dall’Italia, incontrare partner lì, fare routine operative lì, la musica cambia. Non perchè sia vietato tornare, ma perché stai spostando di fatto il centro dell’attività. E il rischio diventa serio.

Terza condizione, la più banale e quella che frega più gente: non devi “tornare a vivere” in Italia. Tornare per vacanze, famiglia, eventi? Nessun problema.

Ma tornare tre giorni a settimana, lavorare “da casa”, avere una routine stabile? Fine dei giochi. La residenza fiscale di fatto non guarda i timbri sul passaporto, guarda come vivi davvero.

E ora il punto che quasi nessuno spiega bene, ma che fa la differenza tra chi capisce e chi si fa illusioni: anche se tu vivi a Monaco e sei tassato zero come persona fisica, gli utili della SRL italiana restano tassati in Italia (IRES e IRAP). Vivere all’estero non basta, se l’azienda “respira” ancora in Italia.

Il vantaggio non è che “non paghi tasse”. Il vantaggio vero è un altro: tu non paghi IRPEF, non paghi dividendi, non paghi contributi finché non ritiri. La tassazione resta sull’azienda, ma tu sposti nel tempo e nel modo il prelievo personale. Ed è qui che la pianificazione diventa intelligente.

Funziona? Sì.
È legale? Sì, se rispetti tutto.
È facile? No.
È pieno di gente convinta di farla franca mentre sta lasciando prove ovunque.

Morale non scritta ma chiarissima: puoi stare sul borderline, ma devi sapere esattamente dove passa la linea. Altrimenti non stai pianificando.

Le sentenze della Cassazione sul tema dell’esterovestizione sono costanti: una struttura estera priva di sostanza economica viene riqualificata, con recupero integrale delle imposte, sanzioni e - nei casi più gravi - profili penali.

Partenza Dove si pagano le tasse Cosa significa
Utile della SRL (prima di distribuirlo) Italia La SRL italiana paga comunque IRES (e di solito IRAP): Monaco non “azzera” le imposte.
Utile lasciato in azienda Italia Paghi le imposte societarie e basta; se non distribuisci, non scatta tassazione personale.
Dividendi distribuiti al socio Dipende dalla tua residenza fiscale Se sei residente fiscale in Italia: tassazione dividendi (26%). Se sei residente fiscale a Monaco: non paghi imposta personale sui dividendi.
Compenso amministratore Dipende dalla tua residenza fiscale Se sei in Italia: IRPEF + contributi. Se sei a Monaco: niente IRPEF italiana e niente imposta personale sul reddito.
Il “vantaggio Monaco” Si vede solo quando i soldi escono dalla SRL Tasse personali (quasi) zero su ciò che incassi come persona fisica (dividendi/compensi).
Direzione effettiva della SRL Se è in Italia, problemi seri La domanda vera non è “dove vivi”, ma dove si decide e si gestisce la società. Se sono di fatto in Italia, rischi contestazioni (con recuperi e sanzioni).
Residenza “di facciata” a Monaco Italia (con recuperi retroattivi) Se torni a vivere/lavorare di fatto in Italia, l’Italia può considerarti residente qui: ti tassano come residente e possono chiedere arretrati + sanzioni + interessi.
Attività online La società paga in Italia, tu paghi dove risiedi Ottima per lavorare da remoto, ma il punto resta lo stesso: imposte societarie in Italia, imposte personali dove sei residente davvero.
Modus operandi Due livelli separati Livello 1: SRL italiana = tasse in Italia. Livello 2: prelievo personale = tassazione legata alla tua residenza (Monaco paghi 0).

Ditta individuale, SRL e holding: cosa cambia con 250.000 €/anno

Con un reddito annuo nell’ordine dei 250.000 euro, la differenza tra ditta individuale, SRL e struttura con holding non è una magia fiscale. La pressione complessiva, a parità di prelievo finale, resta sorprendentemente simile. Ciò che cambia in modo sostanziale è il tempo: quando le imposte vengono pagate e quanta liquidità resta disponibile per investimenti e crescita. Scegli TU quando, quanto e come pagare le imposte.

Struttura Imposte totali stimate Liquidità disponibile
Ditta individuale 120-125.000 € Bassa
SRL 110-120.000 € Media
SRL con holding 110-120.000 € Alta

La ditta individuale concentra il prelievo subito sul reddito prodotto. La SRL, soprattutto se inserita in una holding, consente invece di posticipare il prelievo personale, lasciando utili in azienda per finanziare sviluppo, marketing, tecnologia. Non è un risparmio d’imposta in senso stretto: è gestione del flusso fiscale, perfettamente lecita se ben strutturata.

Con questi livelli di reddito, Monaco è assolutamente vivibile: non si parla di yacht e champagne quotidiano, ma di una qualità della vita molto alta. Il vero discrimine non è economico, bensì probatorio: bisogna dimostrare una residenza effettiva, stabile, coerente, e soprattutto una netta separazione dall’Italia nella gestione dell’attività. In caso contrario, l’Amministrazione finanziaria non contesta “il sogno”, ma i fatti.

OnlyFans, influencer e Dubai: cosa funziona e dove iniziano i problemi

Negli ultimi anni si è diffusa una narrazione molto precisa: creator e creator di contenuti per adulti che partono dall’Italia, si trasferiscono a Dubai, aprono una società “là”, producono contenuti per piattaforme come OnlyFans e iniziano a macinare incassi a sei o sette cifre, il tutto - secondo il racconto - senza tasse e senza problemi. La realtà, come spesso accade, è meno cinematografica e molto più giuridica. È vero che gli Emirati Arabi Uniti non applicano un’imposta sul reddito delle persone fisiche, ed è vero che fino a poco tempo fa il quadro era estremamente favorevole; ma è altrettanto vero che la residenza fiscale non si ottiene con un biglietto aereo e qualche story su Instagram. Per essere fiscalmente residenti a Dubai occorre vivere realmente lì, rispettare i criteri di presenza, avere una residenza effettiva, un centro di vita coerente e - soprattutto - non mantenere in Italia il baricentro economico e personale.
C’è poi un punto spesso ignorato: OnlyFans paga i compensi come redditi da attività professionale/commerciale, e il Fisco italiano guarda con estrema attenzione dove viene svolta l’attività. Se i contenuti vengono ideati, prodotti, gestiti e monetizzati mentre si vive di fatto in Italia, il rischio di riqualificazione del reddito come prodotto in Italia è concreto, anche se i pagamenti arrivano dall’estero. Non conta dove sta la piattaforma, ma dove lavori tu. Inoltre, l’Italia ha firmato accordi contro le residenze fittizie e utilizza gli strumenti classici: incrocio di presenze fisiche, spese, immobili, contratti, accessi, flussi finanziari. Non esiste alcun “vuoto normativo” specifico per i creator adult: le regole sono le stesse di chiunque altro.

Dubai viene spesso descritta come un luogo "senza tasse", ma questa affermazione è vera solo a metà e, soprattutto, solo a determinate condizioni. È corretto dire che gli Emirati Arabi Uniti non applicano un’imposta sul reddito delle persone fisiche: stipendi e compensi personali non sono tassati localmente. Questo però non equivale a una protezione automatica per chi dichiara di essersi trasferito lì. Dubai non tutela le residenze fittizie al pari di come opera il Pricnipato di Monaco e non fa alcun filtro per conto dei Paesi di origine: se una persona mantiene il proprio centro di interessi economici e personali altrove, il problema non nasce negli Emirati, ma nel Paese che rivendica la potestà impositiva, Italia compresa. In altre parole, Dubai non “copre” nessuno: se la residenza è solo di facciata, il vantaggio fiscale evapora nel momento in cui l’Amministrazione finanziaria del Paese di origine ricostruisce i fatti.

Un altro elemento spesso ignorato è che dal 2023 gli Emirati hanno introdotto una corporate tax al 9% sugli utili societari oltre una certa soglia. Questo significa che chi opera tramite società non è più in un regime di tassazione zero assoluto, come avveniva in passato. La misura nasce proprio per allineare il sistema emiratino agli standard internazionali e ridurre l’uso opportunistico delle strutture societarie. Il risultato è che oggi Dubai resta competitiva, ma non è più un’anomalia fiscale totale, soprattutto per chi genera redditi elevati in modo continuativo.

C’è poi il tema dell' IVA (VAT) al 5%, spesso liquidato con superficialità. L’IVA negli Emirati non dipende da dove vive il creator o l’imprenditore digitale, ma da dove si trova il cliente e dalla qualificazione del servizio reso. Nel mondo digitale questo aspetto diventa cruciale: piattaforme, abbonamenti e servizi online possono generare obblighi IVA in giurisdizioni diverse da quella di residenza, rendendo il quadro molto meno “pulito” di quanto venga raccontato. Pensare che basti cambiare Paese per non occuparsi più di IVA è uno degli errori più comuni - e più costosi.

Un altro aspetto che raramente viene citato perché poco “vendibile”: a Dubai non esiste una previdenza obbligatoria paragonabile all’INPS. Nel breve periodo può sembrare un enorme vantaggio, perché il reddito non viene eroso da contributi; nel medio-lungo periodo, però, diventa una responsabilità personale totale. Pensione, copertura sanitaria, protezione in caso di inattività: tutto ricade sull’individuo. È un sistema che funziona solo per chi pianifica in modo rigoroso e consapevole, non per chi vive il presente come se fosse eterno.

Dubai può funzionare solo se è tutto vero. Vera la residenza, vera la presenza, vera la separazione dall’Italia, vera la struttura societaria. Se invece è una messinscena costruita per “pagare zero”, il vantaggio fiscale dura poco e lascia spazio a un’unica certezza: quando la finzione cade, restano solo i problemi.

Parliamo ora di compatibilità culturale e normativa. Dubai tollera molte attività economiche, ma i contenuti per adulti non sono esattamente un settore neutro nel contesto locale. Nella pratica, molti creator operano formalmente come digital creator o media business, con strutture societarie pulite e una gestione estremamente attenta alla comunicazione pubblica e alla separazione tra vita privata e produzione online. Funziona? Sì, se è tutto reale, coerente e ben strutturato. È una scorciatoia? Assolutamente no. Chi lo fa seriamente cambia vita, non solo indirizzo fiscale.
La conclusione, anche qui, è meno glamour di quanto sembri su TikTok: Dubai non è un pulsante “tasse zero” per OnlyFans, è una scelta radicale che richiede presenza reale, disciplina e accettazione di regole molto diverse da quelle europee. Chi prova a usarla come copertura, mantenendo l’Italia come base operativa, prima o poi scopre che i contenuti si possono caricare ovunque, ma le tasse seguono la persona.

Voce Dubai / EAU Spiegazione
Imposta sul reddito persone fisiche 0% Nessuna tassa sui redditi
Contributi previdenziali 0% Nessun equivalente INPS
Tassazione società 9% Dal 2023
IVA (VAT) 5% Dipende da luogo del cliente
Ritenute su pagamenti esteri 0% Nessuna commissione
Pressione fiscale totale 0-9% Solo se struttura reale

Fondazioni, mutualistiche e strutture “alternative”: perché non sono la soluzione universale

Periodicamente riemerge l’idea di ricorrere a fondazioni, enti non profit o strutture mutualistiche come risposta fiscale. La realtà è meno romantica.
Ora, la tentazione da aspirante imprenditore digitale è:

“Ok, allora mi faccio una fondazione, una mutualistica, una roba etica… e pago meno!”

Peccato che non funzionino come un trucchetto fiscale da creator. Gli enti non profit/ETS (e molte strutture affini) hanno un pilastro: divieto (o forti limiti) di distribuire utili e obbligo di reinvestire nello scopo dell’ente; in cambio puoi avere regimi/agevolazioni, ma perché stai facendo attività con finalità specifiche, regole di governance, controlli, rendicontazioni e vincoli seri. Se il tuo obiettivo è “la mia azienda cresce e io mi porto a casa 10k netti al mese”, una struttura di quel tipo spesso è inadatta: o non puoi distribuire come vuoi, o ti incastri in obblighi gestionali che hanno senso per un progetto istituzionale/solidaristico, non per monetizzazione da fonti diversificate. E sulle cooperative mutualistiche (quando c’entrano) il succo è simile: vantaggi solo se rispetti davvero la mutualità, non perché hai trovato un pulsante “tasse -50%”.

Io posso anche recitare la parte del genio che “ha trovato la forma societaria segreta”, ma la legge pretende coerenza tra scopo, struttura, gestione e soldi che escono. Se si vuole ottimizzare in modo pulito, la leva vera spesso è un’altra: organizzazione, separazione rischi, pianificazione dei flussi (utili lasciati in azienda vs distribuiti)…non una “sigla” nuova sulla porta.

Non fare il "pataca"!

In Italia (diciamo più in Romagna) c’è una figura senza tempo, trasversale a classi sociali e partite IVA: il pataca.
Non è lo stupido in senso clinico, nè il delinquente professionista. È qualcosa di più sottile, ed è proprio questo il problema.

Il pataca è quello che:

Il pataca non evade per cattiveria, evade per eccesso di sicurezza.
È convinto che basti cambiare indirizzo, aprire una società lontano, farsi due conti su Excel e il gioco sia fatto. Poi scopre, con grande stupore, che il diritto tributario non è un’opinione e che le storie raccontate male finiscono sempre allo stesso modo.

Chi invece ragiona da professionista fa una cosa molto meno affascinante, ma immensamente più efficace: pianifica.
Accetta che le imposte esistano, le studia, le governa. Capisce che il vero vantaggio non sta nello sparire, ma nel costruire strutture che reggono anche quando qualcuno fa domande scomode.

La differenza non è morale.
È tra chi vuole sentirsi furbo per sei mesi e chi vuole stare tranquillo per vent’anni.

Ecco perché, alla fine di tutto questo giro tra estero, società, residenze e illusioni fiscali, la regola d’oro resta una sola - semplice, locale, intramontabile:

Non fare il pataca.

Il fisco passa.
Le sanzioni restano.
La figuraccia pure.